Il potere, quando è abusato, distorce ogni prospettiva e la replica in una sorta di drammatico effetto domino. Ha ruotato attorno a questo concetto base, espresso con chiarezza, “Tosca”, quarto e ultimo titolo della Stagione 2017-2018 del Teatro Regio di Parma, nell’allestimento firmato da Joseph Franconi Lee desunto da un’idea del 1999 del suo Maestro Alberto Fassini. Erede di quella tradizione che vuole la regia fondata rispettosamente sulla musica (oggigiorno purtroppo fatto non scontato) Franconi Lee si è avvalso di una grande scalinata affiancata da specchi (scene e costumi di William Orlandi) come trait d’union fra gli atti, immersi in un’atmosfera plumbea, da lui stesso definita noir, screziata da luci sapientemente dosate (Roberto Venturi).
L’interno della chiesa romana di Sant’Andrea della Valle era sormontata da una cupola sbilenca e tenebrosa, illuminatasi per accogliere la processione del Te Deum, elevata rispetto alla dimensione terrena. Il disegno a carboncino preparatorio al dipinto della Maddalena, abbozzato dal pittore Mario Cavaradossi, era al centro della rampa, poggiato come una piattaforma, e veniva calpestato. L’arte ridotta a causa scatenante la gelosia di Floria Tosca, sulla quale farà leva Scarpia. Il barone capo della polizia papalina, a Palazzo Farnese, ha consumato la “povera cena” presto interrotta su una tavola ingombra di croci, posta sotto la crocifissione di san Pietro, come raffigurata da Guido Reni, ma senza colori, anch’essa in bianco e nero a confermare la lividezza dell’ambientazione. La stessa posizione, con le braccia aperte e il capo verso il basso, assunta dal corpo di Cavaradossi rotolato sui gradini dopo la fucilazione. E se è risultata efficace, come metafora e come effetto scenico, la scia rossa lasciata dalla stola di Tosca dopo l’uccisione di Scarpia – non convulsa difesa dal tentativo di violenza ma atto compiuto con determinazione, con effetto domino tra cacciatore e preda diventata cacciatrice – altrettanto non è stato per il rosso conclusivo, escamotage piuttosto scontato per rappresentare l’emorragia di cielo e terra, sotto la spada vendicatrice dell’arcangelo Michele in Castel sant’Angelo. Tirando le somme, un gioco di rimandi simbolici, di lettura immediata, semplice ma non semplicistico.
Non univoci, gli intendimenti della direzione dell’Orchestra Filarmonica Italiana, affidata al gesto opulento di Fabrizio Maria Carminati. Il quale ha seguito con cura i cantanti, attento agli attacchi e ai tempi, anch’essi bianchi o neri, senza sfumature. Le dinamiche importanti – nel primo atto tonanti – hanno indotto le voci a “spingere”, oppure, nella prima parte del secondo atto, a declamare. Tale impeto dinamico ha avuto, nel proprio scorrere, anse tranquille in cui Carminati ha collocato le romanze. Così, mentre il soprano ne ha tratto vantaggio per rifulgere, l’aver “tirato indietro” l’appoggio orchestrale non ha giovato al tenore, reduce da una indisposizione. La romanza “Recondita armonia” è stata accolta da esternazioni sparute, causa lo strumento vocale non ancora scaldato a dovere. Gli applausi per Andrea Carè sono infine scrosciati, per il fraseggio attento e il timbro gradevole, in “E lucevan le stelle”, eseguita con cuore e sentimento, dopo una prova discontinua. Simbiotica la sovrapposizione tra interprete e personaggio per Anna Pirozzi Tosca che ha catalizzato il palco con personalità volitiva e “scenica scienza”, con voce potente e mai forzata, dagli acuti saldi e sicuri, nondimeno capace di morbidi legati e smorzature di toccante sensibilità: “Vissi d’arte, vissi d’amore” è stata accolta con meritato entusiasmo. Emissione non lineare, ancorché stilisticamente elegante per Francesco Landolfi, uno Scarpia compendiato in atteggiamenti di distaccata, quasi distratta, crudeltà. Timbro suadente e colori sfavillanti per Luciano Leoni, Angelotti. Spiritoso al punto giusto Armando Gabba, sagrestano. Puntuali Luca Casalin, Spoletta; Nicolò Ceriani, Sciarrone; Roberto Scandura, Carceriere. Limpida la prova di Carla Cottini, Pastore. Ben preparato da Martino Faggiani il coro del Teatro Regio di Parma, e all’altezza del compito le voci bianche della Corale Giuseppe Verdi di Parma, istruite da Beniamina Carretta.
La serata è stata dedicata alla memoria di Tullio Serafin, aderendo all’invito di Andrea Castello, Presidente dell’Archivio storico che custodisce documenti e memorabilia del grande direttore. Le celebrazioni per il 50° anniversario dalla morte del Maestro stanno coinvolgendo una quindicina di importanti realtà teatrali e musicali, e hanno ricevuto la medaglia d’oro del Presidente della Repubblica italiana.

 Visto al Teatro Regio di Parma il 27 aprile 2018

Recensione Maria Luisa Abate