Una sequenza ininterrotta di tableau vivant, passati dagli uni agli altri con movimenti lenti, impercettibili. Un tempo cristallizzato, quello scandito dal regista Lev Dodin, che ha fatto dei personaggi dell’opera Luisa Miller le vittime sacrificali della lotta tra il bene e il male, in quella che egli stesso ha definito “liturgia dell’amore”. L’insolito luogo prescelto per la rappresentazione ha condotto logicamente a tale concezione. Lo spazio scenico infatti era collocato tra le impalcature dei restauri che stanno interessando la chiesa, sconsacrata e in passato adibita a carcere, di San Francesco del Prato. Il Festival Verdi del Teatro Regio di Parma ricerca sempre diversi approcci, intercetta nuovi pubblici, porta la lirica in situazioni sperimentali, nell’ambito di una progettualità che il Direttore Generale Anna Maria Meo ha chiamato “cantiere in movimento”. Così è stato.

Bisognava salire due piani di ponteggi per arrivare alla tribuna, allestita con poltroncine confortevoli quanto quelle di un teatro. Le strutture di metallo tubolare hanno riflesso i colori delle luci (Damir Ismagilov) e costituito ideale prolungamento scenografico (scene e costumi Aleksandr Borovskij) del palcoscenico collocato nell’abside, attorniata da balconate con inserti lignei appropriati per l’ambientazione in Tirolo del libretto di Salvadore Cammarano, e che hanno altresì citato la struttura tipica del teatro elisabettiano. Difatti i coristi, vestiti di sai francescani, erano collocati sui ballatoi e guardavano dall’alto come fossero spettatori. Gli interpreti erano sovente in posizione seduta, che se da un lato non ha facilitato l’espansione della cassa toracica, dall’altro ha ribadito il loro essere schiacciati dalla forza soverchiante della battaglia tra bene e male. La quale secondo il regista russo è alla radice della vita e pervade quest’opera in cui il desiderio di fare azioni buone e corrette trasforma gli uomini in malvagi. L’intento registico e drammaturgico (Dina Dodina) è stato quindi spostare l’attenzione dalla materialità di cose e persone, all’intangibilità degli elementi mossi da un disegno stabilito dall’alto. 

I pochi mutamenti scenici hanno riguardato tavole di legno andate a formare panche o scrittoi, o ancora progressivamente allineate con la duplice funzione di passerella, sulla quale si sono fisicamente elevate alcune figure, o di tavola da pranzo, imbandita con piatti di melagrane. Frutti che nella simbologia ebraica (si ricordi il titolo originale del testo di Friedrich Schiller ispiratore dell’opera: Kabale und Liebe) rappresentano onestà e correttezza. Nell’ultimo quadro, assai forte nelle intenzioni, il desco nuziale si è trasformato in letto di morte, con tutti i convitati accasciati dopo aver condiviso il vino avvelenato destinato ai due innamorati. Una morte collettiva che ha trovato le premesse in un dolore altrettanto collettivo.

Nella staticità perseguita dalla regia, i cantanti hanno avuto un canale piuttosto stretto di gestualità attoriale e perfino d’interazione dato che Dodin ha per lo più voluto gli sguardi fissi in avanti. Tuttavia i personaggi sono risultati completi nella loro delineazione, grazie all’espressività riposta nella voce dall’intero cast.
A sostituire l’inizialmente annunciata Angela Meade, Francesca Dotto ha reso tutto splendidamente morbido, perfino le belle agilità; molto intonata, ha sapientemente unito doti belcantiste a slanci drammatici in Luisa, dibattuta tra l’amore e la devozione filiale. Amadi Lagha ha vestito i panni di Rodolfo e ha conquistato il pubblico con lo squillo generoso, limpido, ben proiettato.

Riccardo Zanellato era l’imponente Conte di Walter, dalla vocalità prettamente verdiana ed elegante nel fraseggio. Grande esperienza nel repertorio verdiano anche per Franco Vassallo Miller di materica concretezza nel provare un sincero affetto paterno cui tuttavia ha anteposto l’intransigenza dei propri principi. Gabriele Sagona ha padroneggiato l’intera gamma di registri e ha compendiato la spregevole caratterialità di Wurm in un distacco emotivo che lo ha reso un autentico cattivo. Accurata nella linea stilistica di canto e dalla forte personalità interpretativa Martina Belli, Federica. Puntuali Veta Pilipenko, Laura, e Federico Veltri Un contandino.

Il direttore musicale del Festival Verdi, Roberto Abbado era sul podio dell’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, ente coproduttore (assieme al Regio) da dove provenivano anche i bravi artisti del Coro diretti da Alberto Malazzi. Abbado ha tenuto in pugno una situazione acusticamente non consueta ma decisamente e inaspettatamente buona. Nella direzione e concertazione, dai colori schietti e dosati con gusto squisito, ha sfruttato con intelligenza musicale gli spunti emersi dall’edizione critica a cura di Jeffrey Kallberg (The University of Chicago Press e Casa Ricordi), compreso il quartetto a cappella del secondo atto, che solitamente viene invece tagliato. Così come al meglio ha declinato la sua frequentazione verdiana, impastata di tensione emotiva e d’elevazione spirituale, necessaria a un’opera dove è frequente il rivolgersi a Dio.

Recensione di Maria Luisa Abate

Visto nella chiesa di San Francesco del Prato – Festival Verdi il 5 ottobre 2019
Contributi fotografici Roberto Ricci

Nella stessa giornata in cui è andata in scena, alla sera, la seconda replica di Luisa Miller, ha preso il via una delle tante iniziative di qualità che formano la ricca offerta del Festival Verdi. Il ciclo “Mezzogiorno in musica” presenta molteplici attrattive. Consente di ammirare le sale affrescate del Palazzo Ducale del Giardino, raramente aperto alle visite perché sede del Comando provinciale dei Carabinieri e, dal punto di vista strettamente musicale, il primo incontro ha permesso di scoprire o riscoprire pagine del Verdi poco conosciuto, con autentiche rarità illustrate da Alessandro Roccatagliati, professore di musicologia all’Università di Ferrara. Non ultimo, il concerto, con l’accompagnamento al pianoforte di Claudio Cirelli, ha dato spazio a giovani artisti emergenti impiegati nelle file del Coro del Regio, il soprano Erika Beretti e il basso Stanislav Chernenkov, che hanno così potuto dimostrare la loro notevoli doti da solisti.