Fuori dall’anfiteatro si snodavano le lunghe file di spettatori accorsi per ascoltare l’intervento di Umberto Galimberti al Festival della Bellezza. Rassegna che quest’anno ha esteso i propri luoghi e collocato buona parte degli appuntamenti all’Arena di Verona, tramutata per l’occasione in Arena Agorà.  Άγορά: termine che nell’antica Grecia indicava la piazza al centro della πόλις dove la gente si riuniva per parlare. Sul terreno davanti al palco, era l’installazione Il terzo Paradiso, opera per la quale Michelangelo Pistoletto ha declinato il soggetto, per lui ricorrente, dell’anello raddoppiato simbolo dell’infinito, essendosi ispirato, così è parso, ai canoni dell’ “Arte povera”. Prima dell’inizio, un applauso è andato a Philippe Daverio, scomparso pochi giorni prima e che anche quest’anno avrebbe dovuto tenere un incontro al festival.

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Umberto Galimberti, con la consueta stringata incisività intercalata da poche battute al fulmicotone, ha svolto il tema di quest’anno, Eros e Bellezza, nella lectio dal titolo “Tà Erotikà, in dialogo con Platone sulle cose dell’amore”. Si è percepita la ripetizione di uno schema, nondimeno il racconto si è svolto a ritmo serrato e con un’alta dose di attenzione da parte degli ascoltatori. Nella sua narrazione il filosofo contemporaneo ha preso in esame, o per meglio dire ha spiegato con chiarezza e semplicità, il Simposio di Platone, una conversazione risalente al 384 a.C. intercorsa tra Socrate e alcuni amici e discepoli nella casa di Agatone. Sono fioccati i collegamenti con pensatori di altre epoche, uno su tutti Sigmund Freud.   

“Se ti do il mio amore, cosa ti do?” ha iniziato a chiedersi Galimberti. L’amore è sentimento, passione e angoscia della solitudine. Noi abbiamo la concezione di amore come un qualcosa a disposizione dell’io. In realtà, l’io dispone dell’amore, ma l’amore non dispone dell’io. Freud dice che l’io non è padrone in casa propria e prima di lui lo aveva detto Platone: gli amanti che passano la vita assieme non sanno cosa vogliono l’uno dall’altro; hanno qualcosa da dire ma non sanno come dirlo, ha chiarito Galimberti.

Platone – colui che ha fondato il modo di parlare e di pensare del mondo occidentale – afferma che i doni più belli vengono dalla follia. Lui ha fondato la ragione e sostiene che la follia oltrepassi le prerogative della ragione matematica. Ossia, Platone intende la ragione come un sistema di regole, ma il momento creativo ed erotico appartiene alla follia.

Gli dei abitano lo scenario della follia e gli uomini quello della ragione, aggiunge Platone. Nel nostro io abbiamo una parte razionale, e quello che Freud chiama inconscio è la nostra parte folle. Con la follia l’io collassa e l’amore appartiene allo scenario della follia. Atopia: ἄτοπος vuol dire fuori luogo, dislocato, e questo era il male che aveva colpito Socrate, il quale durante la battaglia di Salamina se ne stette ventiquattr’ore in tale stato. Galimberti si è soffermato a lungo sulle implicazioni semantiche del termine e ha continuato: “se vuoi parlare d’amore devi dislocarti dal tuo io”.

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Socrate dice: sono il filosofo che non sa niente. “Il filosofo cosa fa?” Mette alla prova ciò che la gente crede di sapere, si è autorisposto Galimberti. Il compito di Socrate era verificare se nei discorsi ci fossero contraddizioni, testava le persuasioni possedute dalle persone e trovava la verità delle singole opinioni. Questo è la filosofia: mettere alla prova le nostre opinioni, frutto dei nostri modi di vivere che da vecchi chiamiamo esperienza.

Episteme, ἐπιστήμη, significa che si regge da solo, che è un pensiero fondato. Socrate dice: io che non so niente, ho episteme delle cose d’amore. Chi te le ha insegnate? gli chiedono i convitati. Una donna, è la risposta. La cultura greca, ha aperto una parentesi Galimberti, era una faccenda esclusivamente maschile, se non omosessuale. Introdurre l’elemento femminile in una discussione greca era un atto molto interessante. Il maschio ha un’opinione logico-matematica … “sto nobilitando!” ha affermato Galimberti fingendo di scherzare e ha proseguito specificando che invece il femminile ha diversi tipi di intelligenza: oltre quella matematica, ha una intelligenza intuitiva e anche sentimentale. La mamma sa per quale motivo il suo bambino piange perché lei lo ama, mentre un estraneo chiederà come mai il piccolo stia piangendo. Così, gli innamorati si capiscono solo tra loro due. Oltre a singolare e plurale avevano introdotto il duale, linguaggio amoroso con una eccellenza di significato capito solo dalla coppia.

Socrate dice che l’amore ha episteme e gliel’ha insegnato una donna. Servono caratteristiche femminili, cui possono accedere anche gli uomini se aprono un varco verso la propria parte femminile. Altrimenti sono tagliati fuori dalle cose d’amore, ha sentenziato Galimberti con un tono categorico che non ha concesso appello.

Platone capovolge la genealogia dell’amore. Ερως, Eros era figlio di Afrodite, dea della sessualità (non della bellezza, della quale era dio Apollo, perché per i Greci la bellezza era al maschile) e di Ares, dio dell’aggressività, della guerra. Platone la colloca nell’inconscio. Noi abbiamo la sessualità per la prosecuzione della specie e l’aggressività per la salvaguardia della prole. La specie è antitetica all’io e l’io, che non è padrone in casa propria come dice Freud, è antitetico alla specie. La morte rappresenta l’assoluta insignificanza dell’io rispetto all’utilità della specie, è stata l’amara conclusione del filosofo di Monza.

Platone dice che l’amore è πενία, mancanza. Non desideriamo ciò che abbiamo, quello lo godiamo. Il desiderio invece ha a che fare con la mancanza. Il desiderio è mancanza, l’amore è mancanza. Ed è ciò che stimola la nostra vita, nella ricerca della via d’uscita dalla situazione di manchevolezza. “Questo è l’amore. Concetto ribadito dal detto popolare in amor vince chi fugge!” (il pubblico ha riso).

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Dicci di più. Cosa è l’amore? chiedono gli intervenuti al simposio. Socrate risponde che l’amore è μεταξύ, un intervallo tra i due estremi, che sono gli umani e gli dei. Amore è μεταξύ perché sta tra questi due poli: uomini/ragione e dei/follia.

Il sogno è il teatro della follia, perché in esso si può essere insieme attori e spettatori. Nella condizione onirica tutti gli stati della ragione saltano. Il sogno fa venire fuori il sottofondo della nostra anima, che è la follia. E l’amore è l’intermediario tra la nostra parte razionale e la parte folle. Il suo compito, dice Socrate, è interpretare le parole degli dei e renderle comprensibili agli umani, e interpretare il linguaggio degli umani e renderlo comprensibile agli dei. La funzione dell’amore è tradurre questi due idiomi e fare da intermediario tra essi, e l’intermediazione avviene nell’innamoramento. L’amore non è un rapporto tra me e te, come siamo portati a pensare. Non ci innamoriamo di chiunque ma solo di chi ha catturato la nostra follia e l’ha svelata, di chi ci ha messi a nudo prima ancora di toglierci i vestiti, ha concretizzato Galimberti. L’altro ha intercettato la qualità della tua follia e ti ha s-velato, ti ha tolto la tua secretezza. E a lui ti affidi perché ha catturato la tua follia. Nella fiducia che riponi in lui sai che dalla tua follia puoi uscire. L’amore nasce quando si diventa specchio l’uno dell’altro, della follia.  

L’amore, dopo l’immersione nella follia, fa uscire un io diverso da quello che avevano prima. Ogni storia d’amore, che finisca bene o che finisca male, cambia il nostro io. Se no, non si sta facendo amore ma solo un po’ di idraulica!(altra risata tra il pubblico).Ogni storia d’amore ci trasforma, invece della cristallizzazione dell’io. Tutte le storie d’amore sono storie di vita che si rinnova. Questa trasformazione dell’io è la condizione della vita.

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Socrate conclude il suo discorso e interviene Aristofane (il quale nelle Nuvole aveva già preso in giro Socrate, ha ricordato divertito Galimberti) e dice che una volta gli uomini erano interi, rotondi, erano uniti maschio-femmina, o maschio con maschio e femmina con femmina. “I greci non avevano i problemi in cui oggi affondiamo miseramente”, ha constatato tristemente Galimberti scatenando un applauso.  Άμφότερος vuol dire che erano affacciati gli uni agli altri, con quattro braccia e quattro gambe. L’uomo intero è l’uno con l’altro, non è il singolo individuo. Forse, ha proseguito Galimberti, noi non nasciamo con una identità, ma questa è il frutto di un riconoscimento. L’identità è un dono sociale. Cosa è l’uomo intero di Aristofane? Zeus aveva paura della forza di questi uomini e allora mandò Apollo a tagliarli in due. Una volta diviso, l’uomo non è più uomo ma è il simbolo di un uomo. Συμβάλλω vuol dire mettere assieme. Quando nel mondo greco due amici o due innamorati dovevano separarsi, spezzavano in due un piatto e ciascuno ne portava via un pezzo. Poi, dopo giorni o mesi o anni, quando si rincontravano, congiungevano le due parti e riconoscevano l’amicizia. Ciascuno di noi è il simbolo di un uomo: la sua metà. L’unico momento in cui si realizza l’uomo intero è l’amplesso. L’amplesso è il tentativo di ricomporlo ed è la sconfitta, perché dopo ci si divide e ciascuno torna a essere il simbolo di un uomo.

Alcibiade chiede a Socrate di giacere assieme. Socrate risponde che l’amore non è figlio del vino e, attesa l’alba, se ne va pensando alle cose d’amore. Galimberti se ne è andato al calare della sera, dopo un bis riassuntivo strappato a suon d’applausi e una raccomandazione ai presenti: Abbiate cura della vostra follia. Non cercate di capire tutto. Lasciate sempre un lato oscuro, enigmatico”.

Resoconto Maria Luisa Abate

Visto all’Arena di Verona, Festival della Bellezza, il 15 settembre 2020
Contributi fotografici: MiLùMediA for DeArtes.