Tripudio dal loggione alla platea. Applausi interminabili hanno premiato le due recite che il Festival Verdi al Teatro Regio di Parma ha dedicato alla Messa da requiem, un appuntamento ricorrente nella rassegna autunnale. La pagina sacra, come è noto, occupò il Maestro durante la lunga parentesi dall’opera e fu dedicata ad Alessandro Manzoni, della cui scomparsa Verdi rimase fortemente colpito, tanto da rimodulare il progetto, precedentemente fallito, di dedicare una messa a Rossini. La Messa da requiem fu eseguita in occasione del primo anniversario della morte di Manzoni, il 22 maggio 1874, nella chiesa di San Marco a Milano. Fu diretta dallo stesso Giuseppe Verdi, che in seguito la diresse anche a Parigi, Londra, Vienna e Colonia.

Di lucidità rivelatrice la visione di Michele Mariotti, uno dei più significativi direttori del panorama internazionale attuale. Della composizione monumentale egli ha proposto una personale profonda riflessione, soffermandosi sull’afflato mistico che emerge prepotente in Verdi, il quale era ateo nel senso di poco propenso alla religiosità ma non certo alla spiritualità. Una lettura, aveva anticipato il direttore, figlia dei nostri giorni, condizionata dagli scenari di guerra che modificano la percezione in chi esegue e in chi ascolta, perché mutano sia le domande che l’umanità si pone sia le risposte che si dà. In Mariotti l’elevazione dello spirito è stata pertanto mediata da un sentire al contempo religioso e laico, quindi universale, ed è sfociata in interrogativi ai quali un Dio terribile non dà risposta terrena. Il senso di speranza instillato dalle ultime note del Requiem è per Mariotti una accettazione pacificatoria che l’uomo deve compiere nei confronti di sé e della propria natura, con tutto il suo carico di fragilità e di paure.

Rapportandosi all’immediatezza caratterizzante il dettato verdiano, la direzione di Mariotti si è basata in primis sullo stupendo, eloquente uso delle dinamiche, convogliato in una narrazione drammaticamente dirompente, tra pienezze di travolgente corposità e note esili come sussurri, dando forma decisa, e precisa, ai timori agghiaccianti, alle umane debolezze, alla sia pur breve speranza, al senso di impotenza che pervade l’uomo al cospetto della morte.

[Varduhi Abrahamyan]
[Marina Rebeka]

Ecco quindi un Kyrie iniziato pianissimo, sottovoce, con un suono talmente diafano da essere risultato disturbato dal pur minuscolo ronzio dell’aria condizionata; premessa di un dialogo interiore pronto a palesarsi in una palpitante invocazione. Il fortissimo apocalittico del Dies irae, in cui l’uomo si trova al cospetto del terribile Giudice supremo, per Mariotti un momento angosciante, è sfociato nello strazio del Lacrimosa. La breve parentesi serena del Sanctus ha condotto all’incisiva essenzialità dell’Agnus Dei, dove l’uomo è attanagliato dalla consapevolezza che l’Agnello di Dio non cancellerà i nostri peccati, ma se ne farà solo carico. La pacificazione definitiva avverrà nella visione della luce di Dio, la Lux Aeterna che accompagnerà nella morte. Il conclusivo Libera me Domine è stato per Mariotti un’accettazione, non priva di sussulti, della condizione di dolorosa impotenza dell’uomo. Un’accettazione del mistero della morte il cui peso è insostenibile ma che è l’unica certezza della vita, esternata in quella parola, mors, che Mariotti ha fatto ripetere ogni volta in modo diverso, fino a scarnificarla e ricondurla allo stato di essenzialità sillabica.

[Riccardo Zanellato]
[Stefan Pop]

Se da un lato l’Orchestra Nazionale della Rai ha risposto in toto alla complessità di indicazioni giunte dal direttore, scandendo e valorizzando appieno l’apporto di ogni singola sezione strumentale, dall’altro lato il Coro del Teatro Regio di Parma, preparato da Martino Faggiani, era in stato di grazia più del solito. Ha colpito il lavoro certosino svolto sulla parola, sul suo significato ma anche sul suono che essa possiede: aspetti entrambi asserviti ad accentuare lo sfarzo di colori e di contrasti dinamici.

Di prima grandezza nel panorama mondiale le quattro voci soliste, tutte denotanti eccelsa finezza interpretativa. Per la prima volta a Parma le due voci femminili. Il mezzosoprano Varduhi Abrahamyan, dal timbro caldo e avvolgente, in cui le torniture si sono sposate al nitore formale. Surplus di intensità d’applausi per il soprano Marina Rebeka, al debutto in questa parte che ha gestito con regale padronanza, con emissione adamantina, calibrando ogni accento in una interpretazione tanto consapevole di ogni singola nota verdiana quanto intimamente intensa. Il tenore Stefan Pop, dalla voce luminosa, limpida, perfettamente controllata nell’emissione quanto nella dizione. Elegante espressione dei sentimenti umani sia l’intento di Pop che di Riccardo Zanellato, il quale ha padroneggiato il dettato con naturalezza e rara intensità, con il bellissimo colore profuso con morbidezza. A lui è spettato il compito di reiterare, nei succitati diversi modi suggeriti dal podio, la parola mors, asciugandola fino a farne un gemito sommesso, rimasto splendidamente in sospensione nell’aria resa liquida.

Recensione Maria Luisa Abate
Visto al Teatro Regio di Parma – Festival Verdi, il 20 settembre 2022
Contributi fotografici Roberto Ricci

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